“Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà”. Le parole di Pavese gli pulsavano nelle tempie al ritmo dei battiti di un cuore non più allenato a quelle salite. Un tempo non mi accorgevo neanche di questa marcia di avvicinamento, pensò. Mi serviva per arrivare alla base un po’ meno addormentato.
Non c’era dubbio che quella era la parete della sua vita. Tutti gli scalatori ne hanno una. Non è necessariamente la più difficile, né la più pericolosa. E’ quella più bella, la più emozionante, quella cui, incoffessatamente, sogni di consegnare il tuo ultimo respiro.
L’aveva percorsa in più occasioni, non molte, di sicuro non troppe. Ogni volta gli aveva dato sensazioni diverse. Un nuovo profumo, una nuova sfumatura di colore, il sole che se ne va e gela la roccia. Questa sarà l’ultima volta, diceva sempre, temendo che lo fosse davvero.
Quando sei solo in mezzo ad un mare di pietra ti senti piccolo, fragile. Nessuno ti vede, sei tu che senti sotto le dita le pieghe della roccia. Se sarai bravo ad assecondarle ti regaleranno la strada per uscirne, altrimenti resterai là, bloccato, ad imprecare contro i tuoi muscoli impotenti.
Può sfuggire alla razionalità orizzontale, ma quanto più sei fragile, tanto più abili saranno le tue mani a trovare l’increspatura giusta. Anche stavolta l’aveva scalata così, tutta d’un fiato, senza alcun autocompiacimento. Solo sotto l’ultima fessura che conduce alla vetta riposò un momento. Forse timoroso di non farcela o tentato dal mistero del vuoto. Se volo magari trovo un buco nel tempo e rinasco da un’altra parte, gli capitò di sperare.
Invece anche stavolta ne uscì. La vita era ancora tutta lì, in mezzo ai suoi piedi, ad intralciargli il cammino. Le girò le spalle e accennò un sorriso. Tornerò tra 5 anni, le promise.
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