Nel gennaio 2018 Carillion dichiarava fallimento. Un anno dopo altre società dell’outsourcing inglese sono impegnate in piani di salvataggio che non facciano fare loro la stessa fine.
Nel gennaio 2018 ha dichiarato fallimento la seconda maggiore società di costruzioni britannica. La Carillion, 43 mila dipendenti in tutto il mondo, di cui 20 mila nel Regno Unito, tra debiti, detenuti in gran parte dalle banche (Royal Bank of Scotland, Barclays Bank Plc, Lloyds), e deficit del Fondo Pensioni aveva un indebitamento complessivo pari a oltre 2 miliardi di sterline. La Carillion ha vissuto di appalti pubblici (quasi 2 miliardi di sterline). Al momento del fallimento aveva in corso importanti opere, tra cui la costruzione della Hs2, la seconda ferrovia ad alta velocità tra Londra, Birmingham e Manchester, la manutenzione di 50 mila case per il Ministero della difesa e di 900 scuole in tutto il paese, oltre a 200 milioni di contratti per gli istituti penitenziari
Il fallimento di Carillion è la manifestazione più esplicita del meccanismo speculativo del PFI (Private Finance Initiative), avviato nel 1992 dal governo conservatore, ma mantenuto anche da quello laburista, attraverso il quale la stipula di un contratto con organismi statali consente di ottenere finanziamenti aggiuntivi. La società di costruzioni ha vinto, così, parecchie gare con alti ribassi, ma, poi, per ripianare i debiti ha continuato ad acquisire commesse pubbliche poco redditizie, che le consentissero di avere le risorse necessarie per tenersi in piedi e liquidare bonus impressionanti ai manager.
La Carillion, inoltre, ha acquisito nel corso dei suoi 18 anni di attività molte compagnie, il cui valore di avviamento rifletteva i flussi di cassa attesi, che servivano, a loro volta, da garanzia per ottenere ulteriori prestiti. Il fallimento della società di costruzioni inglese, che ha edificato il centro media del villaggio olimpico, il terminal 5 dell’aeroporto di Heathrow e la biblioteca di Birmingham, ha coinvolto migliaia di aziende che rappresentavano il sottobosco dell’indotto delle commesse acquisite dall’azienda madre.
A distanza di un anno un’altra grande società inglese di infrastrutture e fornitrice di servizi pubblici (impegnata in carceri, ospedali, strade, scuole), la Interserve, si è trovata nella necessità, a causa di un debito di oltre 500 milioni di sterline, di avviare un piano di salvataggio basato sull’emissione di nuove azioni, in seguito al quale si è verificato un crollo del proprio valore di mercato per oltre il 70%. In seguito a questo i laburisti inglesi hanno chiesto che la società venisse esclusa dalle offerte per appalti pubblici fino a quando non dimostrerà la propria solidità.
Interserve, che impiega 75 mila lavoratori in tutto il mondo, di cui 45 mila nel Regno Unito, in attività che vanno dalla costruzione di edifici governativi alla gestione di servizi infermieristici, insomma, sta tentando di evitare di diventare un’altra Carillion, ma è proprio questo timore a determinare il calo di fiducia che la sta mettendo in ginocchio. La crisi di Interserve è particolarmente significativa in quanto avviene in contemporanea a segnali negativi provenienti dalle altre società impegnate nell’outsourcing inglese. Il debito di Kier, un altro gigante delle costruzioni, infatti, è cresciuto negli ultimi anni fino ad attestarsi in 624 milioni di sterline al 31 ottobre del 2018, determinando la necessità di una ulteriore raccolta di denaro. Il contemporaneo stato di difficoltà di altre società del comparto come Capita e Mitie ci dice che è tutto il sistema del partenariato pubblico-privato inglese che è andato in crisi.
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