Indipendenza è parola nuova perché tutto intorno si parlano politiche dipendenti, interdipendenti, subalterne a dettati economici, norme, narrazioni che insistono sui territori e li irretiscono in una rete di obblighi che li imprigionano. I territori sono dipendenti fintanto che non decidono, volontariamente, di non esserlo più, finché non inventano le parole per non esserlo.
La nostra non è un’indipendenza nazionale. La nostra è l’indipendenza del territorio, dei territori che si sottraggono alla dipendenza dallo Stato e dal sistema economico dominante. Ognuno di questi può aspirare a costituirla. I territori indipendenti convivono tra di loro pacificamente. Non c’è nessuna identità nazionale da rintracciare o ricostruire. Vi sono invece una pluralità di corrispondenze territoriali che vanno riscoperte, ricostruite, reinterpretate. Per questo l’indipendenza dei territori è una costruzione politica, soggettiva, volontaria, consapevole. L’indipendenza dei territori si dà facendola, lottando, dentro il conflitto. L’indipendenza dei territori non è, meramente, una secessione, una scissione in più parti di uno Stato pre-esistente. L’indipendenza dei territori non è l’istituzione di una Nazione, è un processo sociale, istituzionale, democratico.
L’indipendenza si dà dentro un processo istituzionale. Le persone, le comunità, vivono dentro istituzioni, le istituzioni insorgenti e le istituzioni esistenti. Bisognerà costruire le prime e attraversare le seconde. Sono gli eventi che offrono le opportunità del cambiamento, ma, allo stesso tempo, le opportunità si costruiscono, si determinano, si favoriscono. Si dovrà consentire la possibilità di vivere esperienze di indipendenza. E’ nella realtà dei conflitti, nella formazione di un pensiero altro dalle forme dello sfruttamento, del dominio, che si formeranno le istituzioni indipendenti.
A forza di parlare di non-luoghi ci hanno convinto che fuori dal supermercato non c’è più nulla, che la vita è rimasta tramortita sotto i colpi della quotidianità. Magari qualche emozione, ogni tanto. Così, per ricordarci che respiriamo. Ci hanno convinto che la superficie è il tutto e che la partita si gioca nella distanza ridotta tra i propri occhi e il proprio smartphone. Hanno eliminato l’agire umano fino a cedere il passo ad un algoritmo. La democrazia virtuale è triste. Disancorata dalla vita reale, dai luoghi in cui questa si dà, ci destina all’infelicità di una vita binaria, nella quale le domande sono poste sempre dagli altri e a noi toccano un sì o un no. La democrazia del territorio si fonda, invece, sui corpi che lo abitano.
Antudo è corteggiamento, conquista, perché non c’è rivolta senza fascinazione, attrazione, allusione. Non si è mai vista una rivolta che non sia anche desiderio, amore per il mondo che si sta cambiando. Antudo non sarà solo un grido di battaglia, un riconoscimento reciproco, sarà anche un sussurro cui non si potrà non corrispondere.
L’indipendenza si manifesta prima come suggestione, come sottrazione ai legami verticali che relegano i territori a terminali di strutture politiche che hanno altrove il loro centro, poi come azione sociale che si sottrae alla soggezione dell’estrazione della ricchezza dalle nostre vite, dai nostri comportamenti, dalle nostre fatiche. Indipendenza è atto produttivo perché parla immediatamente dell’autogoverno. E’ una parola del sì. Si sottrae al no. Si libera dal risentimento e apre alla speranza della novità, all’incognito.
Indipendenza / Luigi Sturniolo ; prefazione di Gaetano Princiotta Cariddi. – Piazza Armerina (EN) : Nulla Die, 2019. € 9,00.
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