Indipendenza è atto produttivo perché parla immediatamente dell’autogoverno. E’ una parola del sì. Si sottrae al no. Si libera dal risentimento e apre alla speranza della novità, all’incognito.
Nominare è atto politico. Ogni idea di trasformazione sociale crea le proprie parole. Intorno alle parole fondamentali si costruisce un pensiero. Le azioni si collocano dentro un orizzonte di senso e questo è descritto attraverso un lessico che le racconta. Il conflitto, modalità ineludibile attraverso la quale si afferma un mondo che emerge oltre l’esistente, si inscrive in un corso politico nuovo a partire da parole nuove.
Indipendenza è parola nuova perché tutto intorno si parlano politiche dipendenti, interdipendenti, subalterne a dettati economici, norme, narrazioni che insistono sui territori e li irretiscono in una rete di obblighi che li imprigionano. I territori sono dipendenti fintanto che non decidono, volontariamente, di non esserlo più, finché non inventano le parole per non esserlo.
Indipendenza è la condizione di chi si sottrae ad uno stato di soggezione. Appartiene alla vita di tutti, agli eventi di tutti i giorni. E’ parola biopolitica perché impedisce che il diritto alla felicità venga declinato nelle forme di sentimentalismi e moralismi compatibili con l’ordine triste delle cose. Non è un caso se emozione, emozionarsi, siano le parole più abusate dalla televisione e se anche le peggiori ingiustizie vengano tradotte in commozione impotente.
Indipendenza è liberarsi dall’idea che la salvezza verrà da fuori, da enti che appartengono ad altri luoghi, ad altri ceti, ad altri centri decisionali. Dentro la crisi ha termine il patto sociale figlio della crescita, che cedeva sprazzi di welfare a tutti, pur di ridurne il conflitto. Servizi in cambio di pace sociale, ma anche servizi ottenuti attraverso il conflitto. Distribuzione del profitto. Aspettativa oggi impossibile che trascina con sé la fine della socialdemocrazia (quella che camminava nelle nostre stesse scarpe) e la speranza in un capitalismo caritatevole.
Tra i paradossi che la storia ci consegna c’è la richiesta dell’indipendenza dei luoghi blindati, dei territori attraversati dai flussi finanziari. Eppure quei luoghi si nutrono della povertà degli altri. Sottraggono ricchezza, quella ricchezza comune che sono la natura e la conoscenza, prima di tutto. Eppure, indipendenza è la parola che dovrebbe essere abbracciata da chi non ha nulla da aspettarsi, da quei territori che non hanno più nulla da aspettarsi.
Indipendenza è emancipazione dalla politica, quando questa è il mercato dei partiti, la corsa dei politici (al Sud veri e propri ascari) ad affermarsi per esistere dentro quel mondo separato nel quale tutti dicono la stessa cosa, ma nonostante questo urlano, confliggono senza esclusione di colpi, si minacciano reciprocamente. In un gioco corrotto, nei comportamenti, ma anche nell’animo, viene messo in scena, ripetutamente, lo stesso spettacolo. Dentro quello spettacolo c’è sempre qualcuno che appare come il nuovo. Nello spettacolo successivo un altro. E poi un altro ancora.
L’indipendenza si manifesta prima come suggestione, come sottrazione ai legami verticali che relegano i territori a terminali di strutture politiche che hanno altrove il loro centro, poi come azione sociale che si sottrae alla soggezione dell’estrazione della ricchezza dalle nostre vite, dai nostri comportamenti, dalle nostre fatiche. Indipendenza è atto produttivo perché parla immediatamente dell’autogoverno. E’ una parola del sì. Si sottrae al no. Si libera dal risentimento e apre alla speranza della novità, all’incognito.
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