L’immensa distesa di merci nella quale siamo immersi è solo una superficie sottile. Subito sopra ci sono i luoghi, la persistenza dei luoghi, il loro resistere nonostante tutto. Nei luoghi si fonda la politica, nei colori di un territorio, nei suoi dialetti. Nella infinita trama di relazioni che rimanda da una biografia all’altra può cercarsi la comunità.
Gli scalatori vivono con lo sguardo all’insù. Guardano le montagne, ne scrutano i picchi, ne accarezzano i versanti. Disegnano itinerari di salita, individuano problemi, progettano la loro soluzione. Cercano il tempo per farlo. Lo possono fare perché le montagne sono sempre là. L’Etna è sempre là. La scorgi dagli stessi punti di sempre. Monte Pellegrino è sempre là. Monte Cofano è sempre là. I canyon dei Climiti sono sempre là. L’edificazione umana, più o meno globalizzata, più o meno standardizzata, bella o brutta, occupa al massimo alcune decine di metri dal suolo. Il resto è sempre lo stesso. Nel resto siamo nati e ne sentiamo il profumo.
Chi va per mare volge il suo sguardo all’orizzonte. Il mare increspato dal vento di canale, il mare lungo del maestrale. Dal colore del cielo si capisce se, sì, oggi si esce. Entra il vento, fuori le vele, oggi non si pesca. Chi va per mare capisce se c’è vento solo a guardarlo. Il mare è sempre là, nonostante il diaframma di costruzioni erette ad impedirne la vista. Ma sono solo piccole, stupide barriere. Trovi sempre un varco. Del mare, del tuo mare senti il profumo. In quello sei nato. Nel sole abbagliante delle giornate agostane. Lì, accanto al mare capisci che non potresti stare da nessun’altra parte.
A forza di parlare di globalizzazione ci hanno convinto che basta mettere quattro insegne uguali per confondere un luogo con l’altro. E’ il segno del vittimismo del nostro tempo. Non ci sono più luoghi, tutto è omologato, si dice. I territori sono ormai tutti uguali. Non vale più neanche la pena di cambiarlo questo mondo, tanto è brutto. A forza di parlare di non-luoghi ci hanno convinto che fuori dal supermercato non c’è più nulla, che la vita è rimasta tramortita sotto i colpi della quotidianità. Magari qualche emozione, ogni tanto. Così, per ricordarci che respiriamo.
La democrazia virtuale è triste. Disancorata dalla vita reale, dai luoghi in cui questa si dà, ci destina all’infelicità di una vita binaria, nella quale le domande sono poste sempre dagli altri e a noi toccano un sì o un no. La democrazia del territorio si fonda, invece, sui corpi che lo abitano. L’immensa distesa di merci nella quale siamo immersi è solo una superficie sottile. Subito sopra ci sono i luoghi, la persistenza dei luoghi, il loro resistere nonostante tutto. Nei luoghi si fonda la politica, nei colori di un territorio, nei suoi dialetti. Nella infinita trama di relazioni che rimanda da una biografia all’altra può cercarsi la comunità.
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