Free Soloing

Free Soloing

Le foto della salita free solo di Separate reality da parte di Wolfgang Gullich raffigurano ancora lo sforzo di un movimento duro, nel quale il gesto alpinistico mantiene la sua autonomia. Nei video di Alex Honnold c’è, invece, proprio la ricerca del movimento aleatorio che ti faccia pensare che basterebbe un colpo di vento, una piccola perdita d’equilibrio, per il volo fatale.

Nella vita di tutti i giorni siamo portati a pensare in maniera sequenziale. Prima una cosa, poi un’altra, poi un’altra ancora. Quanto più riesci a distinguere le azioni che metti in atto tanto più vivi tranquillo. Quando sei solo davanti alla parete, invece, i pensieri ti si affastellano dentro il cervello, non riesci a distinguerli, si manifestano contemporaneamente. Non puoi pensarli perché non riesci a trattarli separatamente. E’ come se tutti quanti insieme provassero a farsi spazio. Come dei ciclisti nel giorno della tappa importante, corrono veloci per prendere in testa la salita. E’ la paura. E’ la paura che quello sia l’ultimo pensiero che tu possa avere. E non vuoi perderlo.
Le arrampicate solitarie, quelle senza l’uso della corda, quelle nelle quali una caduta sarebbe fatale, sono le più gettonate dai giornali. L’idea del rischio estremo, il gioco con la morte, le salite senza vie di fuga continuano ad attrarre i lettori. Cosa c’è di meglio di un brivido fuggente quando stai seduto nella tua poltrona sorseggiando il tuo preferito? Certo, in quel momento una eccitazione si impossessa del tuo corpo e pensi che “quella sì che è vita”, che lo farai anche tu, che “basta con il comodo tran tran quotidiano”.
C’è chi dice che un libro, in fondo, è un titolo, una copertina e qualcosa dentro. Così, un articolo su una salita in free soloing è una sequenza di foto paurose con le didascalie e un breve testo che le accompagni. Le foto (o i video) sottolineano l’altezza, il passaggio duro sprotetto a molti metri da terra. Quel vuoto sotto, quei piedi appesi nel vuoto, la parete immensa con il puntino umano che appena si scorge sono pane per i denti dell’annoiato lettore che sa che non farà mai quelle cose, ma sogna di farle. “Assapori la vita solo quando rischi di perderla”, dice tra sé e sé, scavando nelle letture che durante la sua vita si è concesso. Sa di ingannare se stesso, ma lo fa ugualmente. Spera di avere il coraggio, un giorno, di sfidare il destino.
Nell’era moderna, nell’era del free climbing, i primi furono Patrick Edlinger e Patrick Berhault. Del primo, in particolare, rimarrà La vie au bout des doigt, il video girato nel 1982 da Jean-Paul Janssen, che nel titolo tradisce l’ideologia che lo informa e che verrà utilizzata mille volte dal punto di vista commerciale. Allora, ancora, prevaleva il senso di libertà. Nel tempo prevarrà l’esposizione del rischio, in fondo non molto distante dalle immagini che raffigurano bombardamenti o i corpi straziati da un attentato. Il più banale (banale come la morte) e commerciale fu Dan Osman, che spinse fino in fondo quel gioco con la morte, espressione più estrema della forma di vita che gli americani chiamano Adrenaline junkie.
Ma se le foto della salita free solo di Separate reality (un tetto di 7b a centinaia di metri d’altezza da superare con incastri) da parte di Wolfgang Gullich raffigurano ancora lo sforzo di un movimento duro, nel quale il gesto alpinistico mantiene la sua autonomia, nei video di Alex Honnold c’è proprio la ricerca del movimento aleatorio che ti faccia pensare che basterebbe un colpo di vento, una piccola perdita d’equilibrio, per il volo fatale. Quell’aleatorietà viene cercata, serve per le immagini, si aggiunge alle difficoltà insite nella via di salita. L’alternarsi delle mani su un piattone sfuggente mentre i piedi si appoggiano appena ha lo scopo di sfidare la sorte con un sorriso accennato sulle labbra.
Tutte queste salite, insomma, non sono per nulla free e poco solo. Sono figlie dell’esibizione dell’io alla platea del mondo. Nel corso del tempo, poi, sono diventate sempre più volgari operazioni commerciali. Niente a che vedere con la prima free soloing della Via attraverso il pesce in Marmolada effettuata dal ventitreenne austriaco Hansjorg Auer il 29 aprile del 2007. L’ascesa è testimoniata da una foto scattata da una coppia tedesca che scalava una via vicina (Don Quixote). Solo al padre, infatti, Hansjorg Auer confessò quello che stava per fare. E forse sarebbe stato meglio consegnare quel segreto ad altri. Probabilmente è per questo che evito di portare i miei figli ad arrampicare.
Hansjorg è espressione di quei solitari che le pareti le scalano perché danno senso alla loro vita, sono esperienze estatiche che non hanno bisogno di essere raccontate, sono vita di per sé, senza rappresentazione, direttamente. Quelle salite continuano a vivere nella mente dei solitari anche dopo. Forse è quella l’esperienza più profonda. Nella solitudine del giorno dopo, nel non-racconto, c’è l’essenza del free soloing. Quella solitudine è parte della salita fatta e presupposto della prossima. “Le emozioni si vivono, non si raccontano”, disse qualche anno fa un telecronista sportivo un po’ eccentrico. E’ proprio così.
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