Il parere della Corte dei Conti del 21 dicembre in seguito al quale si procederà per il Comune di Messina, sulla base del dettato della Legge Madia, alla cessione ai privati del Servizio di smaltimento dei rifiuti è l’esito scontato di cinque anni di Beni Comuni a parole e di mancata volontà di fare chiarezza sulle responsabilità relative ad un sistema produttore di debiti, di un servizio schifoso e di condizioni di lavoro insostenibili. Il fallimento di Messinambiente trascinerebbe, dunque, con sé Messina Servizi Bene Comune, la società in house che, per volontà dell’Amministrazione Accorinti, le si era avvicendata.
Il parere della Corte dei Conti è l’espressione manifesta della presunzione della Giunta Accorinti di poter inventare dispositivi societari che aggirassero la materialità della crisi che avvolge da anni la raccolta della “munnizza” a Messina. E’, sostanzialmente, il crollo di un modello che ha per anni alimentato l’illusione di poter risanare un sistema marcio attraverso un tocco di penna, l’abilità del professionista che, magari lautamente pagato, desse vita ad un nuovo inizio (dopo aver caricato i debiti nel Piano di Riequilibrio pagato dai cittadini), lasciando inalterate le condizioni che avevano generato il fallimento del precedente e spianando in questo modo la strada alla privatizzazione, che sarà pagata dai contribuenti e dai lavoratori.
L’enorme massa debitoria generata dalla triangolazione Comune, Ato, Messinambiente (le ultime due entrambe di proprietà del Comune di Messina) e la qualità infima del servizio offerto ai cittadini avrebbero richiesto un intervento deciso da parte di un’esperienza amministrativa che manifestava la volontà di fare chiarezza sul ciclo dei rifiuti. La situazione era tale per cui avremmo dovuto vedere il “sangue”. Non sarebbe stato possibile aprire quella scatoletta ammuffita senza registrare “morti e feriti”. E, invece, è stata scelta la strada della transazione, rinunciando a tutti i contenziosi, per stendere un velo su quanto era avvenuto, su ciò che aveva generato lo sfacelo che era sotto gli occhi di tutti. Di fatto, così facendo, rendendosene corresponsabili, attraverso piani industriali che si sovrapponevano ai precedenti.
Che tutto questo sia stato fatto sbandierando la difesa del pubblico e dei livelli occupazionali non rende meno colpevole l’azione dell’amministrazione Accorinti. D’altronde, il pubblico che abbiamo conosciuto non è migliore del privato. Il pubblico che abbiamo conosciuto ha carattere privatistico perché appartiene alle consorterie politiche e alle loro relazioni con le aziende di riferimento. Il pubblico che abbiamo conosciuto è un costo per la collettività così come il privato. Perché si possa pensare nuovamente ad una gestione pubblica dei servizi è necessario che di questi se ne difenda la natura, non la proprietà. E’ necessario che il servizio avvenga sotto il controllo degli utenti e dei lavoratori. Magari qualcuno lo giudicherà utopistico, ma è semplicemente l’unica via d’uscita.
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