Le cinque giornate di Messina sono la storia di una città che resiste all’esercito borbonico e mentre una pioggia di proiettili si abbatte a caso su ogni edificio, il “popolo”, questo soggetto nuovo, una mescolanza di categorie e classi sociali, irrompe sulla scena e, a dispetto della inadeguatezza della guida militare, tiene botta fino al sacrificio ultimo dei Camiciotti
Le cinque giornate di Messina sono la storia di una città che resiste. Al di là delle differenti forze in campo, nonostante l’intenzione dello sterminio da parte dell’esercito borbonico guidato da Filangeri (come a più riprese scrive Tomeucci) che si tradurrà in una pioggia di proiettili che si abbatteranno a caso su ogni edificio, il “popolo”, questo soggetto nuovo, una mescolanza di categorie e classi sociali, irrompe sulla scena e, a dispetto della inadeguatezza della guida militare, tiene botta fino al sacrificio ultimo. Un messaggio che si riverbera fino ai nostri giorni, che parla alle tante generazioni che successivamente hanno provato a riscattare la città da un destino di marginalità, che parla anche a chi, pur messinese, vorrebbe trovare negli abitanti della città “porta della Sicilia” una radice antropologica tendente alla perenne accettazione della subalternità.
In quei giorni alle migliaia di soldati asserragliati dentro la Cittadella si aggiunse un’imponente schieramento militare borbonico, forte di svariate fregate a vela e a vapore, inviato a riconquistare la Sicilia. Complessivamente circa 25000 uomini fra truppa, marinai e ufficiali ai quali si contrapponevano, tra regolari e irregolari, non più di 6000 unità. Tra questi c’erano due battaglioni di Camiciotti, circa 1000 giovani intorno ai vent’anni con scarsa preparazione militare, al comando dei colonnelli Poulet e Onofrio. Si trattava dei reparti di fanteria del primo nucleo dell’esercito regolare. La loro inesperienza e la loro giovane età (oppure forse proprio la loro giovane età) non impedirono loro di risultare tra i più disciplinati e generosi, fino al sacrificio estremo di rifiutare di cadere nelle mani delle truppe dell’esercito invasore.
Appartennero all’ultimo nucleo di resistenza, quello che si rifugiò nel Monastero della Maddalena. Di questo facevano parte, insieme ai Camiciotti, uomini dei reparti di irregolari (le squadre), volontari, operai del borgo della Maddalena. Era la rappresentanza ultima di quel “popolo” che per giorni aveva combattuto spontaneamente, con pochi viveri e senza riposo, e che, usando tattiche da guerriglia aveva ostacolato sul Dromo l’avanzata dell’esercito occupante. Su una delle torri campanarie sventolava il tricolore con la triscele al centro, ad indicare un sincretismo delle intenzioni che solo ex-post e con grandi forzature molta parte della storiografia ufficiale ha voluto guardare come all’anticipazione del Risorgimento. “Via canaglia – via sbirraglia”, questo era il sentimento che aveva segnato l’inizio della rivolta il 25 gennaio e questo continuò a contraddistinguerne la resistenza guidata da personaggi come Antonio Lanzetta, commerciante, e Rosa Donato, donna del popolo dalle umili origini.
Il ‘48 siciliano (e il ‘47 messinese ancora prima) ha preannunciato l’anno della rivoluzione europea. Ai margini del continente ha preso le mosse, prima ancora che una piattaforma politica, una composizione sociale. Entro la crisi che investiva quegli anni (si assiste ad un periodo di forte recessione economica) ha preso corpo la rivoluzione siciliana, che fu popolare e democratica, prima ancora che aristocratica. Una rivoluzione che venne sconfitta, come tutti i ‘48 europei, ma che veniva contraddistinta non solo dalla sua primazia cronologica, ma dal protagonismo popolare che così rispondeva al divario economico causato dallo sviluppo capitalistico e che adesso scaricava sulle parti più deboli le sue contraddizioni.
Messina era stata una delle città più ricche e attive della Sicilia. Dal 1784 godeva dello statuto di Portofranco e questo le consentiva di attrarre i mercanti stranieri di tutto il continente europeo e delle Americhe. Già alla fine del Settecento si erano trasferiti a Messina, infatti, commercianti e operatori economici liguri, toscani e francesi, che si aggiungevano alla colonia inglese, ai ginevrini, ai tirolesi. La sua collocazione strategica nel Mediterraneo e la scarsa incidenza latifondistica le avevano consentito di trovare spazio nello sviluppo mercantile e di scambio e di rispondere alla richiesta estera di zolfo, olio, vino e agrumi.
Nel 1817, però, Ferdinando I di Borbone ne aveva limitato di molto le prerogative e aveva dato inizio alla crisi che avrebbe colpito tutta l’economia siciliana tra il 1820 e il 1830. Nonostante questo l’arrivo di mercanti stranieri a Messina non diminuì e l’economia locale poteva avvalersi di una borghesia competente, dotata di capitali e con un forte spirito d’iniziativa. Le rivolte del popolo messinese del 1847 a del 1848 si sviluppano dentro questo contesto. La strategia di distruzione di Ferdinando II dimostra, d’altronde, che Messina per i Borboni assumeva il ruolo di luogo strategico dal punto di vista geografico, più che di città centrale dal punto di vista commerciale. Fu così che il sovrano napoletano volle meritarsi il titolo di “re bomba”.
Nel corso delle cinque giornate messinesi a più riprese i ceti alti rappresentati dai vertici politici e militari diedero prova di codardia a fronte del coraggio degli abitanti della città della falce e questo elemento non è surrettizio, ma espressione della distanza e dei diversi interessi in campo. Forse per questo quelle giornate sono un annuncio. Perché quel popolo è già forte ma ancora incapace di darsi una guida autonoma. Sa resistere sul campo, sa sopperire alla carenza di direzione ma non può ancora prenderne la testa. E’ la manifestazione sociale della sua forza, ma anche della sua immaturità. Che, infatti, non si traduce in autonomia politica. Le cinque giornate sono la manifestazione più pregnante dell’indipendenza del popolo siciliano. Al popolo toccherà di difendere una esperienza di indipendenza che i ceti alti lasceranno travolgere dalla riconquista borbonica.
La rivolta a Messina era stata preannunciata a gennaio da un comunicato del Comitato segreto inviato a Palermo nel quale si manifestava la disponibilità al sacrificio. “Messina attende l’avviso di Palermo. Se deve perire, morrà; ma con le armi in mano e con il voto dell’indipendenza nel cuore”, vi era scritto. Messina lo fece. Venne distrutta dall’esercito borbonico, ma non si arrese. Attese invano aiuti che non arrivarono mai, sebbene ancora il 5 settembre la Camera de’ Comuni riconosceva “che la guerra della libertà e della indipendenza siciliana si concentra in Messina, e il generoso popolo messinese lo sostiene con un eroismo pari a quello degli antichi Greci e Romani liberi”. La sconfitta di Messina fu la sconfitta della rivoluzione siciliana e le violenze che i messinesi subirono nei giorni successivi alle cinque giornate da parte dell’esercito invasore valsero da monito. La caduta di Messina fu irreparabile e quegli avvenimenti minarono il prestigio della rivoluzione e annunciarono l’inizio della sua fine.
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