La catastrofe sanitaria è, al tempo stesso, una catastrofe istituzionale. Lo stato d’emergenza porta con sé la cancellazione della dimensione collettiva. Non fa eccezione l’ambito istituzionale. Contano solo gli “uno”, non i “più”, tanto meno i “tutti”. Protagonisti oggi sono il Presidente del Consiglio, i Governatori delle Regioni, i Sindaci. Finiscono sullo sfondo il Parlamento, le Assemblee regionali, i Consigli comunali. Gli stessi esecutivi allargati, Consiglio dei ministri, Giunte regionali, Giunte comunali, perdono prerogative. Degli organismi della rappresentanza politica e sociale (partiti e sindacati) non c’è più traccia. I movimenti sociali sono costretti ad una mobilitazione social che non riesce (non ancora, almeno) a condizionare le scelte governative.
Dare tutta la colpa al virus, però, come se l’estinguersi della partecipazione pubblica alla decisione fosse il risultato dell’instaurazione di uno stato d’eccezione che, di colpo, cancella la democrazia sarebbe ingenuo. Le strutture della rappresentanza erano già in crisi da tempo. Il Coronavirus ne certifica la condizione. Il Coronavirus fa sparire i segretari di partiti, ma dei partiti non c’era più traccia prima. Il Coronavirus mette all’angolo i sindacati, ma come sarebbe potuto accadere che la sanità pubblica venisse tagliata a tal punto (tale da metterci adesso tutti a rischio) se i sindacati non avessero ceduto, negli ultimi 30 anni, di fronte all’offensiva del paradigma economico, se non ne avessero introiettato la logica.
Un discorso a parte meritano tutti i teorici della democrazia elettronica. Su quella il M5S ha costruito la propria fortuna, al punto da teorizzare l’estinzione delle tradizionali forme della partecipazione, fossero quelle della democrazia elettiva o quelle della mobilitazione popolare. Sarebbe stata sostituita dalle piattaforme elettroniche. Anche in questo caso di fronte all’urto dell’emergenza la decisionalità collettiva si è infranta contro la necessità di centralizzare il comando. Eppure, così come stanno facendo tutti gli uffici e le scuole, non sarebbe complicato riunire, ad esempio, i consigli comunali in videoconferenza e certificarne le decisioni.
A fianco degli “uno” ormai solo medici e, sempre più auspicati, militari. La tecnica si fa politica. Stavolta con grande consenso ci si affida ai tecnici. A loro viene consegnata la speranza dell’uscita dall’emergenza. Tra un po’, fatalmente, scopriremo che tanti pronunciamenti sono dettati da esigenze politiche. Non è difficile immaginarlo. Eppure, come in una specie di fascinazione collettiva, pendiamo tutti dalle loro labbra. Anche quando queste pronunciano parole contraddittorie. Anche quando queste pronunciano parole evidentemente di circostanza (come sia stato trattato il tema dei tamponi e delle mascherine è, da questo punto di vista, emblematico).
Noi non lo sappiamo quando tutto questo finirà. Passiamo dalla considerazione speranzosa che si raggiungerà un picco, poi il grafico scenderà e, magari con l’aiuto della stagione calda, torneremo tutti alla nostra, bella o meno bella, quotidianità al timore apocalittico che questa “cosa” non finirà più o finirà tra molto tempo oppure ancora dovremo imparare a conviverci. I film e le serie catastrofiste ci hanno insegnato che quando accade che arriva il disastro prima si rimane impauriti, increduli, poi ci si terrorizza, infine si impara a conviverci. In alcuni casi sono previsti, poi, i buoni, i combattenti, che allo stesso tempo rimangono umani anche nella disperazione generale, che traggono tutti d’impaccio e salvano il pianeta. Al momento si fa fatica ad individuarli.
Eppure, indipendentemente da quanto lungo sarà il tempo di questa catastrofe, se corto, lungo o per sempre, bisogna porsi subito il problema di come difendere la democrazia. In tanti ne stanno già politicamente approfittando. La richiesta di avere i militari per strada viene da molte parti oggi, ma di certo quelli che già ordinariamente li vorrebbero sono ben contenti di spingere in quella direzione. L’utilizzo dei droni o della tracciabilità attraverso il telefonino dei contagiati adesso li chiedono in tanti per sentirsi più sicuri, ma di certo è strada spianata per chi già da tempo pensa all’utilizzo sistematico di questi strumenti di controllo sociale. La chiusura dentro i confini è chiesta da molti per paura di introdurre il contagio nel proprio territorio, ma di certo con questo ci va a nozze chi i confini li ama. (1)
Continua.
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