Messina è ormai il teatro di una narrazione che si auto invera attraverso le parole del proprio protagonista. Le infinite dirette di De Luca, il suo linguaggio da influencer di provincia, raccontano di una marcia trionfale certificata solo dalle parole del vincitore, nella quale non c’è riscontro poiché le parole degli altri non sono previste nel canovaccio. De Luca ha la grande abilità di imporre l’ordine del discorso. E di spostarlo, quell’ordine del discorso, alla bisogna, ogni qualvolta le circostanze lo richiedano. In tutto questo la realtà, quella vera, quella che viviamo tutti i giorni, finisce sullo sfondo e si fa fatica a distinguere verità e racconto. La lunghissima sequenza di commenti alla diretta sulle sue dimissioni ci dicono di come i suoi stessi spazi social siano stati ormai invasi da “profili” che, né tifosi né avversari, li utilizzano come palcoscenico per le proprie battute di spirito, fino al punto da trasformare una drammatizzazione costruita ad arte in un’altra cosa, in un appuntamento divertente, comico.
De Luca ha portato a compimento la definitiva destrutturazione della rappresentanza politica locale. Nella sua forma estremistica non solo i partiti sono sinonimo di malaffare (e come averne nostalgia, d’altronde?), ma qualsiasi forma dell’agire pubblico (politico, sindacale, istituzionale) diventa meramente un ostacolo alla sua gestione virtuosa e deve essere attaccato e delegittimato. Sarebbe banale dire che un Sindaco non dovrebbe entrare nel merito dell’azione sindacale o del Consiglio Comunale per la ragione evidente che i sindacati rappresentano gli interessi dei lavoratori e i consiglieri hanno compiti di indirizzo e controllo nei confronti dell’esecutivo locale. La sua è una evidente invasione di campo, per usare una espressione a lui tanto cara. Ma tutto questo apparterrebbe ancora ad una fase in cui quelli (partiti, sindacati, istituzioni) rivendichino ancora il loro ruolo.
Certo, tutto questo è stato possibile poiché la rappresentanza politica, quella sindacale e quella istituzionale erano già ampiamente delegittimate, si erano già auto-dissolte. Alcune hanno provato ad opporre una qualche resistenza, ma in grande misura si sono messe di lato, pensando solo a ritagliarsi ancora quel poco di spazio che le circostanze concedevano e a consegnare le critiche ad un mugugno di fondo che non si fa azione. Non si tratta solo di debolezza. In fondo c’è anche la consapevolezza di chi pensa che in una fase del genere che vantaggio se ne può trarre dal gestire senza soldi, dal contrattare senza forza, dal rappresentare senza potere? Ad ogni modo, alla fine ne è rimasto solo uno. De Luca amministra nel deserto politico di una città che sta diventando un deserto produttivo e tutti coloro che non sono sua articolazione ne divengono nemici da isolare e abbattere.
Dopo De Luca, dopo, cioè, la fine di quelle forme della politica che non ci piacevano, che abbiamo odiato, contro le quali in tanti hanno consegnato il proprio ultimo voto pur di farle fuori, c’è solo De Luca, c’è la desertificazione della partecipazione politica, c’è l’indifferenza, prima ancora della tifoseria. A meno che … a meno che non si provi a ricostruire la politica nelle forme del vissuto delle persone, dell’impegno, della rivendicazione degli interessi, del protagonismo, della presa di parola, del sottrarsi al ruolo di telespettatori. A meno che non si abbandoni l’idea che è ad uno, ad uno solo, che devi consegnare il tuo futuro. A meno che non si provi a ricostruire la comunità. Con le sue voci, con la sua storia, i suoi conflitti.
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