La questione politica fondamentale oggi è il rapporto tra centro e periferia, tra centralizzazione, verticalizzazione, “sequestro” dei poteri da un lato e decentramento della decisione dall’altro. Le contraddizioni tra capitale e lavoro, pace e guerra, il collasso annunciato del pianeta, sono irretite dentro un gioco di ruolo che si autoalimenta nella crisi economica e nella catastrofe permanente. La pandemia ha mostrato questo carattere del presente e ne è stata, ad un tempo, alimento. Il rapporto tra centro e periferia, tra governo e territori promette, al contrario, un superamento. Esso non ha al momento uno sviluppo “obbligato”. Può svolgersi in una veemente ripresa dei nazionalismi, in un rinnovato vigore di imperialismi, in una nuova rincorsa della globalizzazione, in un equilibrato e sempre in bilico e precariamente pericoloso coesistere di questi fenomeni. Può essere, però, anche un nuovo protagonismo delle comunità locali, il darsi di una nuova politica fondata sull’autogoverno dei territori. È quindi anche la questione della democrazia – parola complessa, variamente declinata e di certo deteriorata che qui usiamo nella sua accezione più semplice: potere popolare, anche attraverso le sue forme più mediate e di “rappresentanza”. E della rottura tra democrazia e capitalismo, la cui relazione, reale o “raccontata”, ha caratterizzato il novecento.
La forma politica e istituzionale del rapporto tra centro e periferia è lo Stato. Quindi la questione politica oggi è la fine della forma-stato come si è data nel novecento. La costituzione politica dell’indipendenza è la rottura della forma-stato. Di questo ci parlano le politiche costituenti dell’indipendentismo europeo. I catalani, i baschi, gli scozzesi, gli irlandesi rivendicano la liberazione dalle sovranità nazionali che si impongono sui loro territori, sulla loro storia, sulla loro cultura, sulla loro lingua, sulla loro economia, sulle loro istituzioni. L’indipendenza è un processo costitutivo di nuove istituzioni. Nell’indipendenza la critica al modello di sviluppo e alle sue forme dello sfruttamento, le lotte sociali e le giuste rivendicazioni popolari, si danno immediatamente dentro la costruzione di nuove istituzioni. La Sicilia è oggi nelle condizioni di sperimentare la propria indipendenza, per la Sicilia fondare le istituzioni del proprio autogoverno è scelta necessitata. Noi siamo periferia – siamo periferia della forma-stato Italia e della forma di sovrastato che è l’Unione europea. Dire che lo siamo sempre stati – ammesso sia così – non ci aiuta molto: il problema è “capire” cosa significhi oggi nella contraddizione centro-periferia, come si presenti adesso, non ai Vespri, alla fine dell’Ottocento o nell’immediato Secondo dopoguerra. La nostra questione politica perciò è la conquista dell’autonomia e dell’autogoverno della Sicilia. Questa la ragione costitutiva della conquista dell’indipendenza della Sicilia.
L’indipendenza è una pratica, un metodo, un pensiero. L’indipendenza è un processo di liberazione, certo, ma è anche un processo di costituzione – non si dà l’una senza l’altra. Perciò essa ha come tappa, come orizzonte ravvicinato e possibile la proclamazione di una repubblica indipendente in Sicilia. Questo significa che quand’anche con un referendum – come chiedono Catalogna e Scozia – si proclamasse l’indipendenza della Sicilia, essa per noi sarebbe un passo verso la liberazione – l’inizio, non la conclusione del processo. Intendiamo perciò lo “spirito repubblicano” nella sua accezione più semplice: l’interesse e la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica – produttiva, distributiva, ambientale. Esso vive già oggi in noi e nelle reti che costruiamo. Vive anche fuori di noi, disperso. La forma istituzionale democratica che possiamo immaginare è quella di una repubblica autonoma, con una sua assemblea regionale, che si basi sulla rappresentanza territoriale e su una “delega” quanto più ampia possibile della decisione ai territori, quindi un patto federativo in una cornice “comune”, dove comune sta per “siciliana”. Si tratta cioè di svolgere la contraddizione centro/periferia dal lato dei territori – per come essa si dà oggi. Perché non si dà autonomia dei territori senza un’istituzione comune che li riconosca e la riconosca. L’indipendenza è questo, la repubblica democratica che restituisce decisionalità ai territori. L’indipendenza è un processo istituzionale. Chiamiamo Antudo la costruzione politica di questo processo. Niente di più distante, quindi, da una espressione di neo-nazionalismo o dalla volontà di istituire un neo-staterello (socialista o neo-liberista).
Si tratta di un agire politico di massa – organizzazione di massa, lotte di massa, partecipazione di massa. Costruzione cioè di reti della decisione, di decentramento della democrazia popolare. Ogni intervento sociale è significativo come ogni occasione istituzionale, a tutti i livelli. Non si capisce (o si minimizza) il ruolo centrale della questione istituzionale in questo percorso solo se la si guarda dal punto di vista esclusivo delle lotte sociali – a che mai potrebbero servire le istituzioni, che ci sono nemiche? Oppure, se la si guarda dal punto di vista esclusivo della trasformazione del modello di sviluppo – a che mai potrebbero servire le istituzioni, che ci sono nemiche? Quindi, instaurando con le istituzioni (e le sue rappresentanze) un rapporto “debole”, strumentale e perciò debole. Se la si guarda invece, la questione istituzionale, dal punto di vista dell’indipendenza ovvero della rottura della forma-stato, allora si capisce la centralità della questione. E l’obbligo di assumerla e svolgerla da protagonisti deriva dall’essere portatori di una “nuova istituzione” – la repubblica democratica indipendente della Sicilia, basata sulla federazione dei suoi comuni. Questa “potenza suggestiva” e pratica – questa opposizione – deve irrompere fin da subito nella forma-stato. Noi non sappiamo come si svolgerà il processo di indipendenza – se la resistenza dei poteri assumerà una forma repressiva o di guerra di varia intensità. Quello che sappiamo è che oggi le condizioni politiche dell’agire sono sociali, culturali, istituzionali.
Immaginare l’indipendenza della Sicilia significa immaginare e costruire le forme della decisionalità politica che si attesti intorno ai Comuni, benché questo non debba escludere, anzi, in un processo federativo, la dimensione, il respiro, la responsabilità dell’isola tutta intera. Se è vero che non esiste Sicilia indipendente che non passi attraverso un nuovo potere dei Comuni, è vero pure che non può esistere libertà dei Comuni siciliani che non passi attraverso l’indipendenza dell’isola. Gli “spazi” sono dimensioni geografiche e economiche, antropologiche, sedimentazioni storiche, culturali e linguistiche che definiscono le identità dei suoi abitanti. Sono anche una questione di ”scala”. La Sicilia ha questa dimensione spaziale e questi caratteri. Per questo riusciamo ad immaginarne l’indipendenza, così come facciamo per la Catalogna, i Paesi Baschi, l’Irlanda. Allo stesso tempo immaginare l’indipendenza della Sicilia significa immaginarne la trasformazione dei processi produttivi, della distribuzione della ricchezza, della cura dei territori. Questioni tutte che non si risolvono in un amen, nel tempo di una “dichiarazione” – ma in una articolazione di proposte, di lotte, di battaglie sociali ma anche culturali, di idee, di mutamenti delle forme di vita. Tutte battaglie che vengono intraprese nei quartieri come nelle città, nei luoghi di lavoro come nell’abitare, per l’occupazione, per la casa, per il reddito, contro le devastazioni ambientali in un agire politico che ha come pratica e obiettivo l’indipendenza.
Gli uomini vivono di storie. Esse muovono i nostri sentimenti, i nostri cuori, il nostro animus. Ci spingono a agire. L’indipendenza della Sicilia è una grande storia. Tutta da scrivere.
Lanfranco Caminiti
Luigi Sturniolo
Sicilia, luglio 2021
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