Non possiamo non porci una domanda: “perché in città, in regioni, dove la crisi economica è drammatica, dove lo stesso tessuto produttivo tende a ridursi progressivamente, dove il processo migratorio sottrae alle famiglie sempre più giovani, le manifestazioni contro la costruzione del ponte sullo Stretto sono sempre ben partecipate, mentre è vieppiù difficoltoso realizzare la medesima mobilitazione per lotte intorno ai temi sociali?” Perché scendere in piazza per il paesaggio e non per il lavoro, ad esempio? Sì, perché non c’è alcun dubbio che ciò che muove prevalentemente è l’amore per quel tratto di mare, l’identificarsi con esso, il volere continuare a vivere insieme a quella vista. Certo, ci sono tutte le altre motivazioni (il progetto che manca, la deficitaria valutazione costi-benefici, il deficit di democrazia insito in questo tipo di opere, la fondamentale irrilevanza dell’infrastruttura rispetto alle condizioni date, la sua scarsa propensione a generare occupazione locale …), ma se è vero che l’unione di tutti portatori di queste ragioni costituisce una massa critica di un certo rilievo si può ragionevolmente sostenere che essi sono incentivati alla partecipazione dalla certezza di trovarsi in un contesto ampio, che darà visibilità alle loro rivendicazioni.
Nella narrazione debole del Sì ponte c’è l’argomento che essendo già il territorio ampiamente cementificato e dunque privato del suo ambiente naturale e dell’identità di luogo ereditata storicamente non ci sarebbe ragione di opporsi a un opera che, semmai, farebbe acquisire una identità nuova fornita dalla grande infrastruttura. L’argomentazione è evidentemente molto fragile poiché basata sulla confessione di una resa. Ma non è la sua fragilità il motivo della poderosa partecipazione ai cortei. La ragione profonda va cercata nel fatto che sì, è vero che le sponde dello Stretto siano state ampiamente compromesse, così come è vero che gli sfregi alle colline siano tanto profondi quanto le frane che ad ogni fine dell’estate minacciano tragedie. La potenza evocativa di quel tratto di mare, il vuoto che conserva, i colori che tutti noi riconosciamo come annuncio del vento che cambia, però, sono talmente forti da oltrepassare ampiamente gli orrori già compiuti. Che si possa ripristinare un ordine, addirittura, è l’illusione che portiamo dentro di noi.
Ma basterà questo a spiegare la disponibilità a scendere in piazza il 12 agosto, in una data da tanti considerata impraticabile? Forse, ma forse, invece, al fondo c’è l’idea che il riscatto passi proprio dal paesaggio. Da questo punto di vista ciò che più di ogni cosa viene considerato aleatorio (il panorama, il clima, il vento, il sole), al contrario, diventa clamorosamente concreto, pratico, materiale. Tutte le altre “promesse” perdono valore perché chiaramente fondate su un “trucco”: “ti racconto che un’opera servirebbe a te, mentre serve solo a me che la racconto”. E forse la certificazione di questo sta nella presenza al corteo del 12 di agosto di tanti che ormai hanno lasciato lo Stretto per andare a lavorare fuori e che ci tornano in vacanza. Nella loro partecipazione (che poi era un po’ anche la scommessa della data) c’è il contrario del rancore nei confronti una terra che ti aveva costretto a partire, c’è l’amore per la principale risorsa che ci rimane.
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